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Dal "Premio Siracusano Edizione 2012/2013"

Nato da un’idea di Donatella Lisciotto condivisa interamente dagli altri membri del Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala, il premio Siracusano è stato indirizzato agli studenti in possesso del diploma di laurea in psicologia (L24 e LM51) con l’intento di far conoscere il pensiero di Francesco Siracusano, psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e insieme valorizzare i giovani talenti che, oggi, a causa della crisi economica oltre che dei valori, subiscono continue delegittimazioni professionali oltre che personali. Il concorso è stato caratterizzato dalla realizzazione di una fotografia a tema accompagnata da un breve elaborato scritto in cui si è evinta la sensibilità psicoanalitica dell’Autore.Il tema scelto è stato “I luoghi che parlano”.

Di seguito i nostri elaborati...

"Fiori su muri antichi"

a cura di Valeria Mavilia

 

L’idea di questo concorso fotografico a tema “I luoghi che parlano” mi ha fatto subito pensare, accompagnata da un po’ di ansia, alla necessità di dover osservare con più attenzione gli aspetti della realtà per cogliervi quel qual cosa che, immortalato, fosse adatto ad una tale prova. Alla fine, dopo un certo tempo, mi sono resa conto che tra le varie foto scattate da me ce n’era una che, nonostante le mie valutazioni tecniche mettessero in discussione (nello scatto c’era stato un leggero movimento), risaltava nella mia mente su tutte; guardandola c’era qualcosa che mi “pungeva”. Ciò sicuramente aveva a che fare con qualcosa di mio, qualche significato che attribuivo, seppur in modo inconsapevole, alla foto, proiettando un mio vissuto interno. La bellezza, infatti, delle varie forme d’espressione artistica (pitture, sculture, cinema, fotografia) risiede proprio in questo, nell’unificare sotto la stessa opera d’arte esperienze, emozioni, memorie e vissuti diversi, così che i motivi per cui essa piace sono del tutto soggettivi e ognuno conduce un’esperienza “privata” di fronte al medesimo aspetto di essa. Attraverso il meccanismo proiettivo ognuno può vederci qualcosa di sé.Innanzitutto mi è sembrata particolare la prospettiva della foto che va dal basso verso l’alto, partendo da una zona adombrata per cogliere il fascio di luce che arriva e illumina la parte superiore delle mura contornata da fiori color glicine. Sembra come rappresentare lo spazio mentale dove si fondono vecchio e nuovo, passato e presente, chiusura ed apertura, segreto e comunicazione. Mi fa pensare ai livelli della nostra mente: quello più evoluto dove esiste la distinzione tra le cose e quello meno evoluto, più primitivo dove albergano gli aspetti pulsionali e dove prevale l’indifferenziato. Il ruvido del muro antico su cui poggiano le tenere foglie e i fiori rampicanti rappresenta, però, anche la possibilità di un innesto tra questi due livelli presenti nella psiche di ognuno. Il grezzo, il non-elaborato è, infatti, sede e linfa del nostro mondo cosciente. L’Io, che si affaccia al mondo, nasce pur sempre dall’Es e da esso trae l’energia libidica necessaria.Potremmo dire che l’obiettivo del percorso analitico, come lo stesso Freud ha descritto, possa essere proprio l’integrazione tra questi due aspetti della psiche, liberando quell’energia che era imbrigliata ai conflitti e rendendola disponibile per i processi creativi del soggetto nel mondo. “La psicoanalisiè uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io” (S. Freud, 1922). Ciò significa che l’Io, la nostra parte più razionale comprendente le funzioni cognitive, deve orientarci nel rapporto con la realtà in quanto un processo cognitivo totalmente dominato dall’organizzazione pulsionale condurrebbe a distorsioni della realtà come quelle osservabili nelle psicosi. Tuttavia, la creatività comporta la capacità di allentare il processo secondario a favore anche di modalità più primitive basate sul processo primario. Ciò è ben espresso in quella capacità di regressione assolutamente fisiologica che è la “regressione al servizio dell’Io” (Kris, 1936, 1952, 1956), concetto che esprime la possibilità di scivolare con flessibilità verso modalità di pensiero “meno ordinate” per dare libero spazio alla creatività e vedere la realtà in modi sempre nuovi, seguendo la “logica” del sogno anche da svegli.Il percorso psicoanalitico si configura, dunque, come un viaggio esplorativo volto alla scoperta di parti di sé mai conosciute, che rende possibile trarre dalla consapevolezza del passato la forza per il presente e la progettualità per il futuro. La foto nella sua prospettiva mi fa pensare proprio a questo movimento verso la conoscenza-luce dal passato-muro antico, al tempo e alla memoria. La presa di consapevolezza del vecchio e oscuro che fa luce e apre al mondo, facendo germogliare nuove parti di sé, presenti in potenza.L’idea dello spazio tra mura mi suggerisce la possibilità di contenere i ricordi in un luogo mentale sicuro dove possano rimanere, una volta elaborati, senza annullarli o deformarli, ma custodendoli e allo stesso tempo “dimenticandosene” attraverso un certo grado di oblio che può realizzarsi, però, solo dopo la conoscenza delle proprie origini.La foto mi suggerisce inoltre l’idea della tendenza alla vita intrinseca in ogni essere umano, l’istinto di vita e la pulsione di vita che spinge alla sopravvivenza e all’autoconservazione. I fiori rampicanti che attorniano le vecchie mura fanno pensare alla possibilità che qualcosa possa nascere anche nelle condizioni meno favorevoli. Le piante rampicanti possono crescere sia appoggiandosi ad un sostegno, come reti metalliche o spalliere in legno, sia in modo del tutto autonomo, attaccandosi da sole al muro e non necessitando di alcun sostegno. Ciò mi fa pensare all’importanza di quelle possibilità intrinseche ad ogni essere umano, alla capacità di resistere alle avversità che prende il nome di resilienza. Questo è un concetto mutuato dalla fisica ed indica la capacità di un materiale di assorbire energia in caso di urto, ovvero di sopportare gli urti senza spezzarsi. Da alcuni esperimenti condotti, infatti, ne è derivato che i materiali fragili assorbono poca energia, mentre i materiali duttili al contrario assorbono molta energia. Applicando ciò al genere umano, si può quindi dire che è resiliente il soggetto con qualità come la flessibilità, l’elasticità, la capacità di contenere le emozioni.La resilienza si esemplifica, dunque, nella capacità di affrontare i vissuti e le esperienze traumatiche attraverso una rielaborazione creativa che non nega l’evento o il trauma, ma lo limita, lo circoscrive, e consente di investire creativamente nelle proprie risorse. Seguendo il pensiero di Wìnnicott, si potrebbe pensare alla resilienza come alla capacità del soggetto di mantenere e utilizzare le “cose buone” ricevute. La capacità di mantenere un residuo buono è tipico di quei bambini maltrattati che, nonostante la deprivazione, riescono a trovare e conservare dei residui “sufficientemente buoni”, che gli consentono di crescere con risorse inaspettate. All’origine, infatti, c’è sempre la tendenza dell’individuo a restare vivo e a stabilire relazioni con gli oggetti con cui entra in contatto nel suo espandersi. D’altronde se l’ambiente è sufficientemente buono il bambino o adolescente in sviluppo avrà la possibilità di crescere “secondo il proprio potenziale innato “.Qualche muro non fa una prigione, né le sbarre di ferro fanno una gabbia (D.W. Winnicott, 1986).Si può pensare a ciò anche nei suoi risvolti politico-sociali rispetto alle deviazioni che ci vengono proposte e che devono spingerci sempre ad esercitare una viva critica per non abbattere la speranza e la possibilità di auto-inventarsi, qualità insite in ogni uomo.Vorrei concludere riportando una poesia che mi sembra riassuma questi ultimi temi e che si presta a rappresentarli al meglio:

 

I fiori nei muri

Avete mai fatto caso a quei fiori

che crescono nelle crepe dei muri,

a quei fiori che sembrano esistere – e resistere

soltanto per scommessa…

a quei fiori che s’attaccano alla vita

con ogni loro fibra,

succhiando con caparbia avidità

ogni più miserevole goccia d’acqua

e di umidità?

Li avete mai osservati da vicino

quei fiori

che aggrappati ai sassi

resistono alle più violente intemperie,

al gelo delle notti

e ai raggi brucianti di un sole spietato

con straordinaria, ammirevole forza?

Ebbene…

certe persone sono come quei fiori.”(E. Bartoli)

"Bici su balconcino"

a cura di Janette Palella

Un giorno, da bambino, cessai improvvisamente di giocare. Non vi era nessun motivo apparente o almeno nessuno di cui conservassi il ricordo. C’era come un certo gusto nell’osservare a distanza, i miei giocattoli che perdevano di significato. Erano i miei ma non erano lì per me o io non ero più per loro. Poco importava, era tutto un tempo stanco che slatentizzava i miei contorni. Tra i più cari vi era una bici, la mia bici rossa, l’oggetto transazionale tra me e la mia libertà. Era stato un regalo di mio padre. L’aveva comprata in un mercato di un paese vicino dove la tradizione vuole che hi un paio di metri di plastica colorata siano contenuti in maniera affollata tutti i desideri e i capricci dei bambini. Aveva aspettato, tutto felice, la fine del pranzo della domenica per consegnarmela. Caddi un paio di volte prima di imparare disimparando a tenere l’equilibrio. Il segreto era non pensarci, lasciarsi trasportare dallo slancio dei pedali e guardare avanti con abbandono e decisione. Solo dopo, quando andavo già spedito per il cortile, giocavo ad immaginare di viaggiare per paesi alla ricerca di prospettive sconosciute. Ad ogni pedalata entrai per caso nella mia esistenza, fatta di giorni allegri e di continue esplorazioni e trasformazioni dell’Io. Correvo veloce per sentire il vento sbattermi in faccia e i capelli andare in rivoluzione. Trovai lì la ginnastica della fantasia e della disobbedienza, che coltivavo segretamente come un tesoro tutto mio. Erano quelli i miei luoghi, la creazione dei miei desideri.Poi un giorno, cosa ne era stato delle bolle di sapone, meraviglia di un arcobaleno racchiusa in un sfera perfetta? Come poteva spegnersi la fantasia? L’avevo uccisa io o era morta?L’inettitudine aveva la sostanza della sottrazione del mia fantasia. La mia bici si era trasformata in un ammasso di plastica neanche troppo colorata e ferraglia varia. Il rapporto tra me e le cose, aveva lo stesso tono di disincanto di una fenomenologia della noia. Non bastavano neppure i baci di mia madre a scuotermi da quel torpore o le sue promesse di portarmi alle giostre.Al flusso di quei ricordi veloci e inaspettati che mi colpirono quasi come una consapevolezza, gridai ancora più forte quando un poliziotto in tenuta antisommossa mi svegliò dai miei tumultuosi sogni d’anarchia. “Alzati! Forza esci fuori! Sgomberiamo”, diceva. Avevo occupato da 57 giorni un vecchio teatro abbandonato della città insieme ad altri ragazzi, incazzati e morti a vent’anni come me. Ci definivano “zecche” perché ci eravamo attaccati fortemente alla vita, come per formazione reattiva alla disperazione che albergava in noi. Ci avevo dormito in quella voragine pericolante, ebbro di vino e di poesie, Bukowski faceva figo, mi ero innamorato di Giulia come si cade preda di un ambiguo malanno e mi ero pure stordito di canne. Lottavo per la causa di un bene universale,la cultura di un teatro conosciuto solo dai racconti di mio padre, ma in realtà lottavo per me, lottavo per sentire ancora salirmi forte in gola l’urlo di disperazione della mia generazione. Come potevano uccidere ora quella fantasia, quella frattura che avevo ricucito a fatica tra me e la mia vecchia bici?Gridai ancora insieme agli altri il mio diritto ad essere, in testa solo queste note [The passenger, IggyPop]…

“Oh, the  passenger, how, how he rides, oh, the passenger

he rides and he rides

He looks through his window

What does he see?

He sees the sign and hollow sky

He sees the  stars come out tonight

He sees the city’s ripped backsides

He sees the winding ocean drive

And everything was made for you and me

All  of it was made for you and me

‘Cause it just belongs to you and me

So let’s take a ride and see what’s mine

Singing la la la la…lala la la”.

Perché, ero sicuro, la fantasia non era morta e neppure io l’avevo uccisa.

"La madre"

a cura di Maria Longo

Nella fotografia che ho pensato di chiamare “La madre”, viene raffigurato il ventre di una donna in stato di gravidanza, ho scelto di riflettere su questo “luogo” in quanto ritengo che esso per eccellenza parli.Il ventre materno racconta, infatti, la storia di una vita in atto e di una ancora in fieri* di un legame amoroso che si accende di molteplici aspetti e sfumature e di un incontro nel quale ci si riconosce negli occhi dell’altro. Ma prima che la madre e il suo bambino si possano guardare ed esistere, perché il bambino non esiste senza una madre che lo guardi e lo pensi, ma nemmeno una madre esiste senza il suo bambino, come ci ricorda Winnicott, è necessario che passi del tempo, nove mesi nello specifico, durante i quali la donna deve riuscire a raggiungere l’identità di madre attraverso un “travaglio” che non è solo fisico, ma anche e soprattutto psicologico. Dal concepimento la donna deve infatti affrontare delle crisi, parola che etimologicamente ci riporta al verbo “Armo”, cioè compiere delle scelte; ella, infatti, si trova al centro di conflitti antichi con gli oggetti interni, a rivivere quel percorso di separazione-individuazione dalla figura genitoriale materna. Prendono forma antichi desideri: da un lato il ritorno alla fusione con il materno, la donna si identifica con il feto che porta in grembo sperimentando la necessità di essere accudita lei stessa dalla propria madre; dall’altro si palesa il desiderio di “fare un bambino” e quindi appropriarsi di quell’aspetto femminile che apparteneva solo alla madre, che ha il sentore di quei vissuti edipici legati alla fantasia di appropriarsi di ciò che prima era invidiato e proibito, il bambino rubato alla madre, generato dal pene paterno che ella serbava in sé. Questa doppia identificazione (prima col bambino e poi con la madre), si risolve nell’accettazione del feto come oggetto diverso da sé, come il “Doppelgänger” di cui Freud parlava ne di perturbante), che sì, riporta con sé potenzialmente gli stessi tratti del volto, del carattere, ma che non si configura come un essere persecutorio, bensì come primitivamente veniva pensato, cioè “un baluardo contro la scomparsa dell’Io, una energica smentita del potere della morte”. La donna con questa presa di coscienza, dunque, sceglie di “abbandonare memoria e desiderio”, rinuncia quindi al Sé materno e al Sé infantile, ma contemporaneamente se ne appropria in maniera rielaborata, per creare un rapporto nuovo con il figlio che darà alla luce.È in questo momento che la donna, presa coscienza della loro separatezza, aiutata anche dalla percezione dei primi movimenti del feto, sperimenta un senso di riempimento e da avvio a quella fase di attività fantasmatica di investimento oggettuale in cui ella darà vita al “bambino immaginario”, il quale non sarà l’immagine di una particolare persona, ma porterà in sé le caratteristiche sperate dalla madre durante l’esplorazione dei suoi desideri e delle sue paure. La donna sembra infatti muoversi tra due gruppi di rappresentazioni, un gruppo che riguarda il bambino desiderato: un bimbo di bell’aspetto, forte, vivace, brillante, socievole, e l’altro gruppo riguarda il bambino temuto: malformato, debole, malato, brutto. Queste fantasie negative vengono vissute come realmente pericolose per il bambino, sembrano incarnare quegli aspetti negativi del Sé (nati dal senso di colpa per aver rubato il bambino alla propria madre) che ella potrà tenere lontano solo appoggiandosi, nella realtà, a delle figure femminili di sostegno dalle quali trarre rassicurazione sulle sue future competenze di madre. La donna, dunque, forte anche dell’appoggio di altre madri, potrà sperimentare la sua nuova identità di madre “sufficientemente buona”, che nel prendersi cura con amore e solerzia del proprio piccolo, potrà fare riferimento all’identificazione con una “buona madre interna”, che scaccerà via dalla culla i fantasmi negativi di tutte quelle fantasie che minacciavano fantasmaticamente la vita del bambino e giungere finalmente all’incontro con questa nuova parte di sé, la cui vita dipenderà dalla sua e con la quale creerà un rapporto intimo destinato a durare a lungo.

"La solitudine"

a cura di Maria Valeria Affinita

"C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato"(R.Battaglia)

 

Alcune esperienze di vita mi hanno portato, spesso, a “fare i conti” con la solitudine, con quel senso di vuoto e di abbandono che pervade fino ad annichilire l’anima, lasciando poco spazio alla “libertà di poter essere”. La “perdita dell’oggetto” da cui deriva un inevitabile senso di vuoto e quindi di solitudine, è un aspetto essenziale della vita di una persona e la conseguenza più difficile alla quale si deve andare incontro è attraversare il “lutto” elaborando tale assenza.La solitudine è considerata soprattutto, come sentimento triste collegato alla perdita, all’isolamento e al rifiuto, ma non solo: la solitudine diventa serena e gioiosa in virtù del fatto che stare soli con se stessi rinvigorisce l’anima e getta le basi per fare emergere la potenzialità creativa intrinseca.Nell’ottica psicoanalitica, D.Winnicott ha ampiamente discusso sul concetto di solitudine e ne ha apprezzato il valore. In un lavoro pubblicato nel 1957, intitolato La capacità di essere solo, egli espose il punto principale del suo contributo: tale capacità si sviluppa dall’ “antica” relazione madre-bambino, nei primi stadi di vita quando l’infante fa esperienza (paradossalemente) della solitudine in presenza della madre stessa; scrive Winnicott: “soltanto in presenza di una madre giustamente e altamente responsiva, assidua e presente, il bambino via via potrà interiorizzare la figura della madre stessa, e quell’ambiente benevolo che lo circonda e che gli da sostegno, cure e amore. Cosi, l’Io del bambino, in uno stato di strutturazione e di organizzazione, interiorizza sempre di più un ambiente protettivo e benevolo, che consente al bambino di restare effettivamente solo e vivere in armonia e senza angosce”. Così, poste queste basi, da adulti, sarà possibile tollerare la frustrazione e il disorientamento proprie della solitudine senza “disintegrarsi e destrutturarsi”, senza il tormento dell’angoscia derivante dal senso di vuoto e di perdita.Un’altra lettura psicoanalitica sulla condizione di star soli in presenza di qualcun altro, si può rintracciare anche nella relazione analitica, tra paziente e terapeuta. Winnicott sostiene che nella maggior parte delle sedute analitiche, per il paziente è molto importante attraversare dei momenti di silenzio o addirittura “impossessarsi” di un’intera seduta silenziosa; cioè, in questo stato, il paziente sta conquistando qualcosa per sé e l’analista “viene invitato” ad accogliere questo silenzio , ridefinendo da un lato, il legame tra interpretazione e silenzio e, dall’altro lato, favorire la creatività del paziente stesso. Secondo quanto detto, l’analista sa bene cosa sta succedendo, “osserva” il silenzio e “sacrifica” il proprio sapere affinchè possa darsi spazio per il paziente. La condizione di vivere con pienezza l’esperienza della solitudine, fa si che il soggetto la “utilizzi” per mettersi in contatto con il proprio sé, con le proprie emozioni e trarre solo da essi la propria felicità.Anche lo psicoanalista Jean-Michel Quinodoz, nel libro intitolato “La solitudine addomesticata. L’angoscia di separazione in psicoanalisi”(1992), paragona la solitudine ad un’ “area addomesticata”, per imparare a star bene anche da soli con se stessi (come nel caso della volpe del Piccolo Principe). A tal proposito, spesso, ci troviamo immersi in relazioni fragili e insoddisfacenti, pur di sfuggire al “flagello” della solitudine, imponendoci la presenza dell’altro ad ogni costo. L’unica via d’uscita, allora, sembra quella di imparare ad apprezzarla per autoanalizzarsi, prendersi cura di se stessi per capire, davvero, cosa si desidera, rispettando anche la solitudine dell’altro e “offrirsi” per costruire legami autentici.

"Il mare della vita"

a cura di Malvina Deraco

Incontro unico, imprescindibile ed irripetìbile nella vita dell’uomo, è quello tra se stesso e l’ignoto mare della vita. La possibilità di poter guardare con sguardo curioso l’orizzonte incerto che si palesa dinanzi ai nostri occhi, è un’attitudine che fa di noi, uomini e donne, esseri pronti a saggiare della vita. Il bimbo siede sulla sua tavola come se stesse già pregustando quanto di meraviglioso quel lontano miscuglio tra ciclo e mare possa riservagli, sempre pronto però a far ritorno alla sua origine, a quel luogo caldo e sicuro in cui prese forma il suo essere al mondo. Il bambino potrà allontanarsi dal grembo materno solo se avrà in sé la consapevolezza di essere amato dalla madre anche quando deciderà di separarsi da lei, o di sostare a mezz’aria indeciso tra l’andare e il tornare. Compito essenziale del fanciullino è esplorare il confine, la terra e il mare, scevro dalla colpa d’essere in grado di navigare da solo tra le acque della vita, perché crescere non significa peccare. Staccarsi dalla madre, non significa non poterne più fare ritorno. Ci sarà sempre un momento cupo, in cui le onde alte e agitate renderanno difficile il suo navigare, saprà che allora potrà fare ritorno in quella calda grotta materna, rifocillarsi, nutrirsi nella mente e nel fisico e lasciarsi cullare da quell’amore dolce e beato che solo una madre può dare. E’ un movimento infinito, tra andare e tornare, allontanarsi e ritornare ancora. Potersi separare, staccarsi da quella terra madre che con tanta devozione ci ha reso esseri vivi è una grande vittoria, di cui non tutti possono godere. Separarsi non significa morire. L’amore materno, sano e sufficientemente buono, caldeggia la crescita e cura l’indipendenza; senza questi sani presupposti il bimbo nel lungo viaggio intrapreso impiegherà ben poco tempo ad affondare e perdersi tra le onde increspate. Solo se la madre sarà pronta a tollerare l’abbandono del figlio, il mare della vita sarà per lui quiete, attraversabile anche nei momenti di più spaventosa tempesta. In quei casi estremi saprà come usare la sua tavola, attaccandosi ad essa così come gli è stato insegnato ad aggrapparsi alla vita. Solo così il piccolo bambino avrà la meglio sulla tempesta: dopo di essa farà ritorno la dolce calura del sole, simile al tepore materno. Ora il piccolo eroe tornerà tra le braccia della madre, raccontando la coraggiosa impresa, inorgogliendola e rendendosi giubilante ai suoi occhi. La madre potrà godere dell’esultazione del piccolo senza temere per lui, poiché nessuna intemperia potrà scalfire la sua forza, di cui ella è creatrice. E’ questo il nucleo autentico dell’amore materno: incoraggiare senza scoraggiare, emancipare senza infantilizzare, lodare senza mai mortificare, allontanare con amore senza soffocare. La madre che potrà, con dolore, guardare il figlio da lontano salpare dal porto, vedere la sua figura perdersi tra i mari della vita, farà di lui non solo un figlio felice ma anche un futuro genitore che potrà sopportare e desiderare la separazione dalla sua prole. La cara tavola, ultimo tra i doni materni, rappresenta la sua zattera indistruttibile che gli permetterà di cavalcare alte maree ma anche di poter domare le turbolenti onde del suo mondo interno. La tavola lo preserverà dai pericoli, sarà sua quanto della madre: grazie ad essa solcherà oceani estranei per poi far ritorno alla terra genitrice; così da capo a capo del mondo lo porta e lo riporta tra l’incognito e il conosciuto. Saranno tante le lacrime versate in silenzio dalla madre nel salutare il figlio. Saranno lacrime trattenute, soffocate dal sorriso e mai usate per impietosire il figlio: saranno così tante da poter riempire mari e oceani, saranno lacrime amare, intrise di un dolore profondo ma necessario per la gioia dell’amato figlio. Questo è l’amore materno: amare con l’amara consapevolezza di soffrire la partenza, la separazione e l’addio. L’amore materno non pretende, non esige, non dev’essere meritato, per sua natura è incondizionato; lontano dall’essere un amore soffocante ed annichilente, mai diventerà estenuante ed invadente, piuttosto sarà tenero e sereno, abbraccerà l’altro senza togliere il respiro. Se la madre non spingerà la tavola del figlio il giorno della partenza entrambi faranno ammenda a vita. Il figlio saprà affrontare ogni pericolo se sa’ di non distruggere la madre con la propria assenza. Solo così potrà guardare l’orizzonte, esser libero di poter essere lungo il suo cammino. Potrà lasciarsi sedurre dalla vita, assaggiandone tutti i suoi sapori e lasciandosi inebriare dai i suoi odori: potrà amarla e odiarla, annegare tra le sue acque impetuose per brevi istanti e poi domare vittorioso onde spaventose. Il giovane uomo adesso guardando con fierezza il riflesso del suo volto tra i mari della vita, vi riconoscerà quell’antica immagine di sé riflessa negli occhi della madre, quando i loro sguardi s’incrociarono per la primissima volta. Adesso inizia la vita.

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